Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

INFERNO

Canto XXXII

sabato 9 aprile, fra le tre e le quattro e le sei del pomeriggio cerchio IX, zona I: Caina, traditori dei congiunti
zona II: Antenòra, traditori della patria; il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito
Caina: Camicion dei Pazzi, Alessandro e Napoleone degli Alberti, Mordrèt, Focaccia dei Cancellieri, Sassolo Mascheroni. 
Antenòra: Bocca degli Abati, Buoso da Duera, Tesauro dei Beccheria, Gianni de' Soldanieri, Gano di Maganza, Tebaldello de' Zambrasi, Ugolino della Gherardesca, Ruggieri degli Ubaldini
Caina, traditori dei congiunti: immersi nel ghiacio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo basso per cui le loro lacrime si solidificano solo a contatto col ghiaccio;  
Antenòra, traditori della patria: immersi nel ghiaccio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo rivolto in giù, ma le lacrime che sgorgano dagli occhi si ghiacciano subito costringendoli a tenerli sempre chiusi.
Comincia il canto trigesimosecondo dello Inferno. Nel quale l'autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro che tradiscono i fratelli e' congiunti, parlando con Camiscion dei Pazzi, n'ode più nominare. E poi, procedendo nell'Antenòra, dove in simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor città, truova Bocca degli Abati, il quale più altri gli nomina dannati in quel luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro all'arcivescovo Ruggieri.
      S’io avessi le rime aspre e chiocce, 
come si converrebbe al tristo buco 
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, 
      io premerei di mio concetto il suco 
più pienamente; ma perch’io non l’abbo, 
non sanza tema a dicer mi conduco; 
      ché non è impresa da pigliare a gabbo 
discriver fondo a tutto l’universo, 
né da lingua che chiami mamma o babbo. 
      Ma quelle donne aiutino il mio verso 
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe, 
sì che dal fatto il dir non sia diverso. 
      Oh sovra tutte mal creata plebe 
che stai nel loco onde parlare è duro, 
mei foste state qui pecore o zebe! 
      Come noi fummo giù nel pozzo scuro 
sotto i piè del gigante assai più bassi, 
e io mirava ancora a l’alto muro, 
      dicere udi’mi: «Guarda come passi: 
va sì, che tu non calchi con le piante 
le teste de’ fratei miseri lassi». 
      Per ch’io mi volsi, e vidimi davante 
e sotto i piedi un lago che per gelo 
avea di vetro e non d’acqua sembiante. 
      Non fece al corso suo sì grosso velo 
di verno la Danoia in Osterlicchi, 
né Tanai là sotto ’l freddo cielo, 
      com’era quivi; che se Tambernicchi 
vi fosse sù caduto, o Pietrapana, 
non avria pur da l’orlo fatto cricchi. 
      E come a gracidar si sta la rana 
col muso fuor de l’acqua, quando sogna 
di spigolar sovente la villana; 
      livide, insin là dove appar vergogna 
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, 
mettendo i denti in nota di cicogna. 
      Ognuna in giù tenea volta la faccia; 
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo 
tra lor testimonianza si procaccia. 
      Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, 
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti, 
che ’l pel del capo avieno insieme misto. 
      «Ditemi, voi che sì strignete i petti», 
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; 
e poi ch’ebber li visi a me eretti, 
      li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, 
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse 
le lagrime tra essi e riserrolli. 
      Con legno legno spranga mai non cinse 
forte così; ond’ei come due becchi 
cozzaro insieme, tanta ira li vinse. 
      E un ch’avea perduti ambo li orecchi 
per la freddura, pur col viso in giùe, 
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? 
      Se vuoi saper chi son cotesti due, 
la valle onde Bisenzo si dichina 
del padre loro Alberto e di lor fue. 
      D’un corpo usciro; e tutta la Caina 
potrai cercare, e non troverai ombra 
degna più d’esser fitta in gelatina; 
      non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra 
con esso un colpo per la man d’Artù; 
non Focaccia; non questi che m’ingombra 
      col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più, 
e fu nomato Sassol Mascheroni; 
se tosco se’, ben sai omai chi fu. 
      E perché non mi metti in più sermoni, 
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi; 
e aspetto Carlin che mi scagioni». 
      Poscia vid’io mille visi cagnazzi 
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, 
e verrà sempre, de’ gelati guazzi. 
      E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo 
al quale ogne gravezza si rauna, 
e io tremava ne l’etterno rezzo; 
      se voler fu o destino o fortuna, 
non so; ma, passeggiando tra le teste, 
forte percossi ’l piè nel viso ad una. 
      Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? 
se tu non vieni a crescer la vendetta 
di Montaperti, perché mi moleste?». 
      E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta, 
si ch’io esca d’un dubbio per costui; 
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». 
      Lo duca stette, e io dissi a colui 
che bestemmiava duramente ancora: 
«Qual se’ tu che così rampogni altrui?». 
      «Or tu chi se’ che vai per l’Antenora, 
percotendo», rispuose, «altrui le gote, 
sì che, se fossi vivo, troppo fora?». 
      «Vivo son io, e caro esser ti puote», 
fu mia risposta, «se dimandi fama, 
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note». 
      Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. 
Lèvati quinci e non mi dar più lagna, 
ché mal sai lusingar per questa lama!». 
      Allor lo presi per la cuticagna, 
e dissi: «El converrà che tu ti nomi, 
o che capel qui sù non ti rimagna». 
      Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi, 
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti, 
se mille fiate in sul capo mi tomi». 
      Io avea già i capelli in mano avvolti, 
e tratto glien’avea più d’una ciocca, 
latrando lui con li occhi in giù raccolti, 
      quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? 
non ti basta sonar con le mascelle, 
se tu non latri? qual diavol ti tocca?». 
      «Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle, 
malvagio traditor; ch’a la tua onta 
io porterò di te vere novelle». 
      «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; 
ma non tacer, se tu di qua entro eschi, 
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta. 
      El piange qui l’argento de’ Franceschi: 
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera 
là dove i peccatori stanno freschi". 
      Se fossi domandato "Altri chi v’era?", 
tu hai dallato quel di Beccheria 
di cui segò Fiorenza la gorgiera. 
      Gianni de’ Soldanier credo che sia 
più là con Ganellone e Tebaldello, 
ch’aprì Faenza quando si dormia». 
      Noi eravam partiti già da ello, 
ch’io vidi due ghiacciati in una buca, 
sì che l’un capo a l’altro era cappello; 
      e come ’l pan per fame si manduca, 
così ’l sovran li denti a l’altro pose 
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca: 
      non altrimenti Tideo si rose 
le tempie a Menalippo per disdegno, 
che quei faceva il teschio e l’altre cose. 
      «O tu che mostri per sì bestial segno 
odio sovra colui che tu ti mangi, 
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno, 
      che se tu a ragion di lui ti piangi, 
sappiendo chi voi siete e la sua pecca, 
nel mondo suso ancora io te ne cangi, 
      se quella con ch’io parlo non si secca».
 
 

 
 

 
 
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Canto XXXIII

sabato 9 aprile, circa le sei pomeridiane cerchio IX, zona I, Antenòra: il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito;  
cerchio IX, zona 3, Tolomèa, il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito.
Antenòra, Ugolino della Gherardesca, Ruggieri degli Ubaldini; Tolomèa frate Alberigo, Branca d'Oria. cerchio IX, zona I, Antenòra: traditori della patria, immersi nel ghiaccio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo rivolto in giù, ma le lacrime che sgorgano dagli occhi si ghiacciano subito costringendoli a tenerli sempre chiusi;  
cerchio IX, zona 3, Tolomèa, traditori degli ospiti, immersi nel ghiaccio in posizione supina, per cui le lagrime ristagnano negli occhi e si ghiacciano immediatamente, tanto da impedire l'uscita di altre lacrime, le quali, non trovando sbocco, si riversano all'interno, acuendone il dolore.
Comincia il canto trigesimoterzo dello Inferno. Nel quale l'autore, udita la ragione e 'l modo della morte del conte Ugolino, procedendo nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader l'anime, parendo qua sù ancora il corpo vivo.
      La bocca sollevò dal fiero pasto 
quel peccator, forbendola a’capelli 
del capo ch’elli avea di retro guasto. 
      Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli 
disperato dolor che ’l cor mi preme 
già pur pensando, pria ch’io ne favelli. 
      Ma se le mie parole esser dien seme 
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, 
parlar e lagrimar vedrai insieme. 
      Io non so chi tu se’ né per che modo 
venuto se’ qua giù; ma fiorentino 
mi sembri veramente quand’io t’odo. 
      Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, 
e questi è l’arcivescovo Ruggieri: 
or ti dirò perché i son tal vicino. 
      Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, 
fidandomi di lui, io fossi preso 
e poscia morto, dir non è mestieri; 
      però quel che non puoi avere inteso, 
cioè come la morte mia fu cruda, 
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. 
      Breve pertugio dentro da la Muda 
la qual per me ha ’l titol de la fame, 
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, 
      m’avea mostrato per lo suo forame 
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno 
che del futuro mi squarciò ’l velame. 
      Questi pareva a me maestro e donno, 
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte 
per che i Pisan veder Lucca non ponno. 
      Con cagne magre, studiose e conte 
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi 
s’avea messi dinanzi da la fronte. 
      In picciol corso mi parieno stanchi 
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane 
mi parea lor veder fender li fianchi. 
      Quando fui desto innanzi la dimane, 
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli 
ch’eran con meco, e dimandar del pane. 
      Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli 
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; 
e se non piangi, di che pianger suoli? 
      Già eran desti, e l’ora s’appressava 
che ’l cibo ne solea essere addotto, 
e per suo sogno ciascun dubitava; 
      e io senti’ chiavar l’uscio di sotto 
a l’orribile torre; ond’io guardai 
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. 
      Io non piangea, sì dentro impetrai: 
piangevan elli; e Anselmuccio mio 
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 
      Perciò non lacrimai né rispuos’io 
tutto quel giorno né la notte appresso, 
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. 
      Come un poco di raggio si fu messo 
nel doloroso carcere, e io scorsi 
per quattro visi il mio aspetto stesso, 
      ambo le man per lo dolor mi morsi; 
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia 
di manicar, di subito levorsi 
      e disser: "Padre, assai ci fia men doglia 
se tu mangi di noi: tu ne vestisti 
queste misere carni, e tu le spoglia". 
      Queta’mi allor per non farli più tristi; 
lo dì e l’altro stemmo tutti muti; 
ahi dura terra, perché non t’apristi? 
      Poscia che fummo al quarto dì venuti, 
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, 
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?". 
      Quivi morì; e come tu mi vedi, 
vid’io cascar li tre ad uno ad uno 
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, 
      già cieco, a brancolar sovra ciascuno, 
e due dì li chiamai, poi che fur morti. 
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno». 
      Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti 
riprese ’l teschio misero co’denti, 
che furo a l’osso, come d’un can, forti. 
      Ahi Pisa, vituperio de le genti 
del bel paese là dove ’l sì suona, 
poi che i vicini a te punir son lenti, 
      muovasi la Capraia e la Gorgona, 
e faccian siepe ad Arno in su la foce, 
sì ch’elli annieghi in te ogne persona! 
      Ché se ’l conte Ugolino aveva voce 
d’aver tradita te de le castella, 
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. 
      Innocenti facea l’età novella, 
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata 
e li altri due che ’l canto suso appella. 
      Noi passammo oltre, là ’ve la gelata 
ruvidamente un’altra gente fascia, 
non volta in giù, ma tutta riversata. 
      Lo pianto stesso lì pianger non lascia, 
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, 
si volge in entro a far crescer l’ambascia; 
      ché le lagrime prime fanno groppo, 
e sì come visiere di cristallo, 
riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo. 
      E avvegna che, sì come d’un callo, 
per la freddura ciascun sentimento 
cessato avesse del mio viso stallo, 
      già mi parea sentire alquanto vento: 
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move? 
non è qua giù ogne vapore spento?». 
      Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove 
di ciò ti farà l’occhio la risposta, 
veggendo la cagion che ’l fiato piove». 
      E un de’ tristi de la fredda crosta 
gridò a noi: «O anime crudeli, 
tanto che data v’è l’ultima posta, 
      levatemi dal viso i duri veli, 
sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, 
un poco, pria che ’l pianto si raggeli». 
      Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, 
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, 
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». 
      Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; 
i’ son quel da le frutta del mal orto, 
che qui riprendo dattero per figo». 
      «Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?». 
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea 
nel mondo sù, nulla scienza porto. 
      Cotal vantaggio ha questa Tolomea, 
che spesse volte l’anima ci cade 
innanzi ch’Atropòs mossa le dea. 
      E perché tu più volentier mi rade 
le ’nvetriate lagrime dal volto, 
sappie che, tosto che l’anima trade 
      come fec’io, il corpo suo l’è tolto 
da un demonio, che poscia il governa 
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto. 
      Ella ruina in sì fatta cisterna; 
e forse pare ancor lo corpo suso 
de l’ombra che di qua dietro mi verna. 
      Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: 
elli è ser Branca Doria, e son più anni 
poscia passati ch’el fu sì racchiuso». 
      «Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; 
ché Branca Doria non morì unquanche, 
e mangia e bee e dorme e veste panni». 
      «Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche, 
là dove bolle la tenace pece, 
non era ancor giunto Michel Zanche, 
      che questi lasciò il diavolo in sua vece 
nel corpo suo, ed un suo prossimano 
che ’l tradimento insieme con lui fece. 
      Ma distendi oggimai in qua la mano; 
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi; 
e cortesia fu lui esser villano. 
      Ahi Genovesi, uomini diversi 
d’ogne costume e pien d’ogne magagna, 
perché non siete voi del mondo spersi? 
      Ché col peggiore spirto di Romagna 
trovai di voi un tal, che per sua opra 
in anima in Cocito già si bagna, 
      e in corpo par vivo ancor di sopra.
 
 

 
 

 
 
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Canto XXXIV

sabato 9 aprile, circa le sette pomeridiane; dopo il passaggio nell'emisfero australe sono le sette del mattino. zona IV: Giudecca, distesa ghiacciata alimentata dal fiume Cocito;  
Passaggio attraverso la natural burella dall'emisfero boreale a quello australe.
Lucifero, Giuda, Bruto, Cassio traditori: coperti interamente dal ghiaccio, da cui traspaiono "come festuca in vetro": alcune sono sdraiate, altre in posizione verticale, altre in piedi o capovolte colla testa all'ingiù ed altre ancora chinate quasi a formare un arco.
Comincia il canto trigesimoquarto dello Inferno. Nel quale l'autore passa nella Giudecca, e vede il Lucifero e Giuda Scariotto e altri spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a' velli di Lucifero, si cala esce dello 'nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a riveder le stelle.  
Qui finisce la prima parte della Cantica, over Comedia, di Dante Alighieri, chiamata Inferno.
      «Vexilla regis prodeunt inferni 
verso di noi; però dinanzi mira», 
disse ’l maestro mio «se tu ’l discerni». 
      Come quando una grossa nebbia spira, 
o quando l’emisperio nostro annotta, 
par di lungi un molin che ’l vento gira, 
      veder mi parve un tal dificio allotta; 
poi per lo vento mi ristrinsi retro 
al duca mio; ché non lì era altra grotta. 
      Già era, e con paura il metto in metro, 
là dove l’ombre tutte eran coperte, 
e trasparien come festuca in vetro. 
      Altre sono a giacere; altre stanno erte, 
quella col capo e quella con le piante; 
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte. 
      Quando noi fummo fatti tanto avante, 
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi 
la creatura ch’ebbe il bel sembiante, 
      d’innanzi mi si tolse e fé restarmi, 
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco 
ove convien che di fortezza t’armi». 
      Com’io divenni allor gelato e fioco, 
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, 
però ch’ogne parlar sarebbe poco. 
      Io non mori’ e non rimasi vivo: 
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, 
qual io divenni, d’uno e d’altro privo. 
      Lo ’mperador del doloroso regno 
da mezzo ’l petto uscìa fuor de la ghiaccia; 
e più con un gigante io mi convegno, 
      che i giganti non fan con le sue braccia: 
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto 
ch’a così fatta parte si confaccia. 
      S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, 
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, 
ben dee da lui proceder ogne lutto. 
      Oh quanto parve a me gran maraviglia 
quand’io vidi tre facce a la sua testa! 
L’una dinanzi, e quella era vermiglia; 
      l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa 
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla, 
e sé giugnieno al loco de la cresta: 
      e la destra parea tra bianca e gialla; 
la sinistra a vedere era tal, quali 
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla. 
      Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, 
quanto si convenia a tanto uccello: 
vele di mar non vid’io mai cotali. 
      Non avean penne, ma di vispistrello 
era lor modo; e quelle svolazzava, 
sì che tre venti si movean da ello: 
      quindi Cocito tutto s’aggelava. 
Con sei occhi piangea, e per tre menti 
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava. 
      Da ogne bocca dirompea co’ denti 
un peccatore, a guisa di maciulla, 
sì che tre ne facea così dolenti. 
      A quel dinanzi il mordere era nulla 
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena 
rimanea de la pelle tutta brulla. 
      «Quell’anima là sù c’ha maggior pena», 
disse ’l maestro, «è Giuda Scariotto, 
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena. 
      De li altri due c’hanno il capo di sotto, 
quel che pende dal nero ceffo è Bruto: 
vedi come si storce, e non fa motto!; 
      e l’altro è Cassio che par sì membruto. 
Ma la notte risurge, e oramai 
è da partir, ché tutto avem veduto». 
      Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai; 
ed el prese di tempo e loco poste, 
e quando l’ali fuoro aperte assai, 
      appigliò sé a le vellute coste; 
di vello in vello giù discese poscia 
tra ’l folto pelo e le gelate croste. 
      Quando noi fummo là dove la coscia 
si volge, a punto in sul grosso de l’anche, 
lo duca, con fatica e con angoscia, 
      volse la testa ov’elli avea le zanche, 
e aggrappossi al pel com’om che sale, 
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche. 
      «Attienti ben, ché per cotali scale», 
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso, 
«conviensi dipartir da tanto male». 
      Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso, 
e puose me in su l’orlo a sedere; 
appresso porse a me l’accorto passo. 
      Io levai li occhi e credetti vedere 
Lucifero com’io l’avea lasciato, 
e vidili le gambe in sù tenere; 
      e s’io divenni allora travagliato, 
la gente grossa il pensi, che non vede 
qual è quel punto ch’io avea passato. 
      «Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede: 
la via è lunga e ’l cammino è malvagio, 
e già il sole a mezza terza riede». 
      Non era camminata di palagio 
là ’v’eravam, ma natural burella 
ch’avea mal suolo e di lume disagio. 
      «Prima ch’io de l’abisso mi divella, 
maestro mio», diss’io quando fui dritto, 
«a trarmi d’erro un poco mi favella: 
      ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto 
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, 
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». 
      Ed elli a me: «Tu imagini ancora 
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi 
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra. 
      Di là fosti cotanto quant’io scesi; 
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto 
al qual si traggon d’ogne parte i pesi. 
      E se’ or sotto l’emisperio giunto 
ch’è contraposto a quel che la gran secca 
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto 
      fu l’uom che nacque e visse sanza pecca: 
tu hai i piedi in su picciola spera 
che l’altra faccia fa de la Giudecca. 
      Qui è da man, quando di là è sera; 
e questi, che ne fé scala col pelo, 
fitto è ancora sì come prim’era. 
      Da questa parte cadde giù dal cielo; 
e la terra, che pria di qua si sporse, 
per paura di lui fé del mar velo, 
      e venne a l’emisperio nostro; e forse 
per fuggir lui lasciò qui loco vòto 
quella ch’appar di qua, e sù ricorse». 
      Luogo è là giù da Belzebù remoto 
tanto quanto la tomba si distende, 
che non per vista, ma per suono è noto 
      d’un ruscelletto che quivi discende 
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, 
col corso ch’elli avvolge, e poco pende. 
      Lo duca e io per quel cammino ascoso 
intrammo a ritornar nel chiaro mondo; 
e sanza cura aver d’alcun riposo, 
      salimmo sù, el primo e io secondo, 
tanto ch’i’ vidi de le cose belle 
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. 
      E quindi uscimmo a riveder le stelle.
 
 

 
 

 
 
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